L’esame di stato da Giornalista, tra tradizione e digitale

Ogni tanto, mia madre mi rifila un borsone con varie ed eventuali che avevo lasciato a casa dei miei – cose che avevo lasciato di proposito, ma questo è un altro discorso. “Devo fare spazio”, mi dice. Così, tra jeans a vita bassa e scarponi da sci, mi è capitato tra le mani l’attestato che nel 2014 mi aveva proclamato Giornalista Professionista.

📚L’esame l’avevo preparato in più di sei mesi (come tutti, mentre lavoravo), e pensavo solo a quello: peggio di tutti gli esami dell’università messi insieme. Forse perché, emotivamente, l’Esame di Stato da Giornalista ha sempre rappresentato il completamento di un sogno che avevo fin da bambina. Che non potevo infrangere.
👧🏼Già alle elementari scrivevo pensierini “di inchiesta” sulla qualità del cibo della mensa, e poi dai 17 ai 24 anni ho calcato le strade della gavetta in cronaca: prima con il giornale locale della mia cittadina d’origine, poi occupandomi della zona della Provincia di Milano fino a scoprire la grande Metropoli, con QN/Il Giorno e con l’edizione online de Il Corriere della Sera. Nel 2012 sono entrata nella mia prima redazione come redattore ordinario, con un contratto di tre mesi. In quel contesto diventare professionista, contrattualmente, in un mondo ideale, mi avrebbe portato dal precariato ad avere un posto in redazione. Ma così non è stato. Ho fatto l’esame e nulla è cambiato.

📲 Poi, in quest’ultimo decennio di crescita tecnologica, le esperienze mi hanno portato ad adattare gli insegnamenti del giornalismo tradizionale a una disciplina ai tempi nuova, quella del digitale, dove il giornalista plasma un’informazione intelligente anche (ma non solo) grazie all’analisi di dati interpretati da un “algoritmo umano”, per rispondere ai reali bisogni di sapere delle persone. Che non c’entra niente con fare “data entry” o “scrivere per i motori di ricerca come automi”, come mi è capitato di sentir definire con superficialità il mio lavoro: essere un giornalista digitale significa ascoltare i bisogni dei lettori/utenti e dare delle risposte significative per loro, confezionate con la grammatica di ogni canale di riferimento.

E quest’ultimo concetto (confezionate con la grammatica di ogni canale di riferimento), sconosciuto a molti, è la chiave di tutto.

Come scrisse Enzo Jacopino, il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti in carica quando ho fatto l’esame, “non è un tesserino che fa di una persona un giornalista“, e aveva ragione. Lo dimostra il caso scandaloso dell’esame della bravissima collega Giulia Innocenzi come lo dimostrano i competenti divulgatori (non sempre giornalisti) che online aiutano a fare chiarezza tra informazioni superficiali e faziose su vari argomenti.

Credo che il desiderio di fare una corretta informazione sia infuocato da una curiosità perpetua, che ti fa scavare dentro le cose per poterle prima radiografare e poi esporre in maniera ordinata, per quello che sono. Lasciando a chi leggerà il compito di interpretare secondo il proprio punto di vista, momento storico, parte politica, senso critico. Mica è facile! In questo processo è fare la cronaca che forgia il metodo del giornalista. Credo sia come far pelare chili e chili di patate agli aspiranti cuochi. E poi qualcuno diventa uno chef, si apre un ristorante e prende qualche stella.

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Ogni tanto, mia madre mi rifila un borsone con varie ed eventuali che avevo lasciato a casa dei miei – cose che avevo lasciato di proposito, ma questo è un altro discorso. "Devo fare spazio", mi dice. Così, tra jeans a vita bassa e scarponi da sci, mi è capitato tra le mani l'attestato che nel 2014 mi aveva proclamato #GiornalistaProfessionista 📚L'esame l'avevo preparato in più di sei mesi (come tutti, mentre lavoravo), e pensavo solo a quello: peggio di tutti gli esami dell'università messi insieme. Forse perché, emotivamente, l’Esame di Stato da Giornalista ha sempre rappresentato il completamento di un sogno che avevo fin da bambina. Che non potevo infrangere. 👧🏼Già alle elementari scrivevo pensierini "di inchiesta" sulla qualità del cibo della mensa, e poi dai 17 ai 24 anni ho calcato le strade della gavetta in cronaca: prima con il giornale locale della mia cittadina d’origine, poi occupandomi della zona della Provincia di Milano fino a scoprire la grande Metropoli, con QN/Il Giorno e con l’edizione online de Il Corriere della Sera. Nel 2012 sono entrata nella mia prima redazione come redattore ordinario, con un contratto di tre mesi. In quel contesto diventare professionista, contrattualmente, in un mondo ideale, mi avrebbe portato dal precariato ad avere un posto in redazione. Ma così non è stato. Ho fatto l'esame e nulla è cambiato. 📲 Poi, in quest’ultimo decennio di crescita tecnologica, le esperienze mi hanno portato ad adattare gli insegnamenti del giornalismo tradizionale a una disciplina ai tempi nuova, quella del digitale, dove il giornalista plasma un'informazione intelligente anche (ma non solo) grazie all'analisi di dati interpretati da un "algoritmo umano", per rispondere ai reali bisogni di sapere delle persone. Che non c'entra niente con fare "data entry" o "scrivere per i motori di ricerca come automi", come mi è capitato di sentir definire con superficialità il mio lavoro: essere un giornalista digitale significa ascoltare i bisogni dei lettori/utenti e dare delle risposte significative per loro, confezionate con la grammatica di ogni canale di riferimento. […continua nel primo commento 👇🏻]

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